“Chi sei?” è una domanda all’apparenza semplice.
Per rispondere a volte basta pronunciare il proprio nome e cognome e poco altro. A un colloquio di lavoro possiamo snocciolare il curriculum e quello che sappiamo fare. Davanti a un ufficiale basta aprire la carta d’identità o fornire patente e libretto. Mettere una firma in fondo a un documento in banca, in posta per ritirare un pacco o per acquistare con la carta di credito al supermercato.
E quando ci chiedono una foto? Possiamo innanzitutto sbuffare e poi sederci all’interno di una di quelle macchinette automatiche e farcene fare una. “Sei un robot?” chiedono quando vuoi iscriverti a una newsletter. Che domande. No, non sono un robot!
Scrive Kafka, in una lettera all’amata Felice, a proposito di un suo ritratto:
“Non so che farci, questo lampo al magnesio mi conferisce sempre un aspetto da demente, col viso torto, gli occhi strabici e fissi. Non temere, cara, non sono così, questo ritratto non ha valore.”
Ha valore invece, non possiamo negarlo.
È strano: fin da piccoli abbiamo iniziato a costruire la nostra identità a partire da un’immagine, prima quella materna, poi quella dello specchio. Da adulti invece capita di far fatica ad accettare il nostro aspetto.
Capita perché man mano che cresciamo ci costruiamo una nostra immagine interna che in realtà è una sintesi un po’ confusa di noi.
“Tra tutte le persone che abbiamo visto, quella che meno ricordiamo siamo noi” Diderot
Così decidiamo che nelle foto non veniamo bene, non ci piacciamo e vediamo solo i difetti e le cose che – secondo noi – proprio non vanno.
L’immagine di noi allo specchio può non apparirci amica. Possiamo decidere di inseguire un modello ideale e fare a pugni con noi stessi oppure accogliere quell’immagine e metterla insieme alle altre. Quali altre?
Non siamo solo un’immagine, un nome o una firma.
Siamo di più
Siamo la persona in quella vecchia foto e siamo quella nuova, quella che non è ancora stata scattata. Siamo quello che eravamo e quello che vorremmo essere. In spalle portiamo sempre i nostri valori, nelle mani abbiamo la nostra cultura.
Abbiamo dentro il posto da dove veniamo e quello dove ancora non siamo stati.
A volte ci sentiamo uguali a noi stessi invece siamo sempre diversi. Siamo i nostri migliori amici e i nostri peggiori nemici. Siamo strani e imperfetti. Siamo difficili.
Capita di fallire e di perderci. Ma andiamo avanti, giorno dopo giorno componiamo un puzzle dai pezzi infiniti. Se ci va bene troviamo il pezzo che si incastra alla perfezione, se no pazienza, togliamo, cambiamo. Senza sosta. Mettiamo continuamente insieme piccoli frammenti di noi. Per comporre un’immagine più grande. Siamo i nostri sogni e i nostri pensieri. Che siano belli, allora.
Siamo sempre noi
Nell’immagine che abbiamo in mente e nell’immagine che vorremmo trasmettere agli altri. A volte siamo apparenza. Altre volte ci nascondiamo. Perché siamo anche le nostre paure. Siamo il nostro corpo anche quando lo bistrattiamo.
Siamo quello che vediamo. Siamo i nostri occhi che – come parentesi – apriamo e chiudiamo sul mondo. Siamo il nostro cuore e la nostra mente con cui continuiamo a immaginare e immaginarci con tutte le nostre forze.